Le Competenze di Leadership e le Polarità Organizzative
Articolo di Giuseppe De Feo – Baglietto & Partners
Trent’anni fa l’idea di competenze collegate alla gestione e sviluppo delle persone (allora, risorse umane) si affacciò per la prima volta in Italia con la pubblicazione del testo di L. e S. Spencer, Competence at work, ed il convegno tenutosi a Verona con la partecipazione, tra gli altri relatori, dello stesso Lyle Spencer, di Richard Boyatzis e una delle ultime apparizioni del grande David McClelland; nonché, tra il pubblico, del sottoscritto, curioso e appassionato.
L’atteggiamento professionale e metodologico rispetto al tema si consolidò abbastanza presto in senso strutturato e decisamente classificatorio, con uno spirito assimilabile a quello dei primi scienziati naturalisti di epoca illuminista. Lette dalla prospettiva attuale, quelle pur ricche analisi mi sembrano incasellare le persone (e le loro capacità di esplorazione, adattamento e azione nella realtà) all’interno di sistemi meccanicistici adatti a contenere le possibilità di espressione, quasi esclusivamente per valutarle in una prospettiva efficientista.
Oggi non possiamo più fondarci su un “modello generale” di tipo deduttivo, basato magari su una specifica opzione ideologica: i decenni che ci separano da quel periodo pionieristico richiedono che si debba prendere in considerazione un approccio decisamente diverso, valorizzando un percorso per fortuna in parte già avviato da alcune realtà multinazionali più avanzate.
Sono emerse relativamente di recente alcune prospettive interpretative che attualizzano gli approcci classificatori della fine del secolo scorso. Questi studi, e i conseguenti modelli applicativi, valorizzano il metodo dell’analisi psicologica guidata da ben strutturate rilevazioni statistiche (v. in particolare le proposte di Zenger e Folkman). Il limite che mi pare di riscontrare in questi studi – pur affascinanti per la profondità di alcune riflessioni – è che, per l’analisi, si delega sempre ad una metodologia esterna alle aziende e si arricchisce il ruolo consulenziale di un’aura scientifico/sacerdotale che esautora le aziende e i manager. Mentre, per la fase di crescita delle persone, i metodi proposti realizzano una episodicità puntuale degli interventi, nel senso che ci si fonda, per la realizzazione del miglioramento personale, su politiche ristrette di sviluppo e sulla attivazione individuale dei singoli manager per la propria crescita.
Un cambiamento dai risultati non fugaci richiede oggi, al contrario, un sistema di attivazione fondato su basi cognitivamente più complesse e socialmente ben più allargate.
È evidente come oggi le aziende siano chiamate a rispondere a domande che vanno ben oltre le loro responsabilità di routine nell’area economica e si correlano piuttosto alle tematiche strategiche sociali, economiche e ambientali che riguardano l’intero Pianeta e l’umanità nel suo complesso.
Le tematiche planetarie configurano una situazione complessiva di “tempi confusi”, che possono essere qualificati sinteticamente da acronimi (forse altrettanto confondenti e spiazzanti) come VUCA o BANI, ma che pure rappresentano bene la nostra realtà presente.
Oggi, vediamo come la Storia delle nostre società così come le nostre storie individuali insistano all’interno di precise “grandi narrazioni” che includono le sfide fondamentali che abbiamo di fronte. La globalizzazione è senz’altro una di queste, lo storytelling intorno a questo “intrico multicentrico di connessioni, culturali, economiche e tecnologiche”, per usare l’efficace definizione dell’antropologo Jeremy Clifford. La globalizzazione ha contrapposto – in modo cinico e fallimentare – la realtà del “globo” a quella del “Pianeta”. Si è così venuto ad intaccare pesantemente il mito (e la narrazione) del Progresso, propria del XX secolo, sotto gli spietati colpi del cambiamento climatico e della crisi ambientale.
E proprio il “disastro ambientale” è senz’altro un’altra narrazione che esercita una grande pressione e pone domande ultimative alla coscienza e alla capacità di agire di tutti noi, dai nostri governanti a tutti i cittadini (compresi, ovviamente, manager e consulenti).
Ma possiamo parlare anche di una ulteriore grande narrazione, quella della “decolonizzazione” e del correlato “decentramento dell’Occidente”: dobbiamo renderci conto che non siamo più il centro del mondo, in particolare noi Europei; gli attuali fenomeni sociali e culturali, sostenuti dai dati statistici, portano alla ribalta altri popoli e altre culture, una volta del tutto subalterne ai creatori occidentali dello sviluppo. E questo provoca anche crisi di rigetto, la creazione di barriere, di muri, per preservare illusoriamente i nostri relativi privilegi.
Questo è l’orizzonte complessivo al cui interno ci muoviamo, un insieme di aggregati concettuali ed emotivi che in sostanza qualificano la nostra interpretazione del mondo. Sono convinto che dobbiamo prendere in considerazione questo orizzonte, sia come cittadini o attori politici che come attori organizzativi, perché questa più ricca e complessa prospettiva potrà dare maggiore spessore alle nostre azioni nella vita civile così come, in particolare, nella vita organizzativa.
Per attivare questa nuova sensibilità e rendere pratico e incisivo un nuovo modo di procedere nell’azione organizzativa, non possiamo ricorrere a metodologie semplificate e formule algoritmiche. Possiamo piuttosto recuperare alcuni canoni fondamentali della riflessione organizzativa, che sono stati apparentemente messi da parte nel continuo procedere delle “mode aziendali”. È ben noto infatti come i modelli manageriali procedano secondo tendenze o business fads che si sviluppano intensamente entro un ciclo di vita di pochi anni (direi, intorno ai 5) e vengono poi sostituiti da altri modelli, sempre relativamente transitori.
Sono convinto che a fronte dell’attuale complessità e confusione si debbano recuperare le tematiche dell’apprendimento organizzativo e del ruolo, all’interno di questo, dei team, per poter illuminare le condizioni per un progresso aziendale non effimero, poggiandosi su valori e principi affermatisi alla fine del secolo scorso.
Le competenze di leadership così come, di conseguenza, le modalità comportamentali per gestire le situazioni aziendali sfidanti, possono essere individuate ed indicate dai manager stessi organizzati come team di apprendimento per declinare dei tentativi di risposta alle questioni di fondo e per individuare percorsi operativi di cambiamento.
I manager verranno chiamati a confrontarsi, in primo luogo, con il senso che le grandi narrazioni hanno per la loro specifica realtà, per descrivere la narrazione specifica dei macro-fenomeni citati nel contesto della loro azienda. Fare chiarezza sui significati e gli impatti delle sfide globali o continentali in relazione alle aziende specifiche fornisce potere ed energia ai team costituiti allo scopo.
Il secondo livello di intervento sarà la riflessione analitica sugli intrecci tra natura della cultura aziendale e politiche gestionali, come proposto nel mio precedente testo https://bit.ly/3EEDAi5. Una riflessione su questo schema essenziale condurrà i manager dell’azienda a una visione critica della realtà gestionale, visione che per la sua natura operativa potrà essere immediatamente azionabile in direzione di cambiamenti efficaci. Infatti, sono convinto che possedere uno schema di riferimento essenziale nella sua struttura consenta ai team di lavoro di confrontarsi e far emergere le diverse implicazioni di ogni contesto di azione, per poter attuare un approccio davvero innovativo e trasformazionale, per di più condiviso, alla gestione delle operations e delle persone.
A partire da questa seconda fase si potranno attivare negoziazioni interne tra gli utilizzatori per evidenziare le aree, le politiche e le prassi per la trasformazione e individuare i ruoli e le alleanze per il cambiamento. Così come potranno essere individuati gli insiemi di competenze, manageriali e di leadership, per la implementazione degli obiettivi.
Il processo schematico che i team di cambiamento attraverseranno può essere letto attraverso il percorso:
- Riconnettersi – la costituzione di legami nuovi e forti, ricomposti, tra i manager delle varie aree e professionalità, in direzione di un’analisi franca delle questioni.
- Riconsiderare – il rinnovamento della visione delle questioni aziendali alla luce delle tematiche strategiche in campo: un saper sostare sulla frontiera del cambiamento per poter andare controcorrente rispetto al “già fatto”, illuminando la strada verso nuove parole, nuovi approcci e nuovi metodi.
- Reimpostare – reindirizzare il futuro dell’azienda, dopo essersi concentrati sull’impatto che l’orizzonte più ampio esercita sui contesti e aver sfidato le prassi in cui si opera, attraverso effettivi esperimenti di cambiamento.
E quale sarebbe in questa prospettiva il ruolo della consulenza? Ritengo, con discreta soddisfazione, che si tratterebbe di dismettere del tutto i panni degli esperti e detentori del sapere metodologico o contenutistico, che si trincerano nella zona di conforto di un atteggiamento sacerdotale, rinforzando nei fatti il conformismo e la mancata assunzione di responsabilità da parte del management. È evidente come tutto ciò sia una rappresentazione superata da tempo, che finisce sempre con il confermare la natura effimera delle politiche aziendali.
Oggi, e alla luce di questo diverso paradigma di lavoro, si può “decentrare” il ruolo della consulenza, necessariamente “centrando” il fuoco dell’azione sul management aziendale, ma rendendosi conto che l’azione di cambiamento organizzativo non può essere qualcosa di totalmente controllato, ma è un’attività di persone che comunicano con altre persone, traducendo al meglio e dando un senso a relazioni complicate. Rispetto alla specifica qualità di questo processo, la consulenza aiuta a tenere la direzione verso analisi e azioni non conformiste, rinunciatarie o di comodo, per continuare a prosperare nella “lucida confusione” dei tempi attuali.